Le vere eroine di oggi? Le mamme che lavorano (con tanti sensi di colpa)

Anche un sondaggio lo rivela: l’azienda Groupon ha intervistato un campione di circa 650 donne, provenienti da tutte le regioni d’Italia e di età compresa per lo più fra i 35 e i 54 anni.

Ben 8 mamme lavoratrici su 10 si sentono “in difetto” nei confronti dei figli: conciliare famiglia e professione non è semplice. E infatti molte delle mamme che lavorano convivono con costanti sensi di colpa (e si dimenticano i loro punti di forza).
Lo rivela Vanity Fair: essere mamma e lavorare equivale a fare l’acrobata. Sì, perché tenere in equilibrio famiglia e professione significa destreggiarsi ogni giorno fra ufficio e figli. Fra riunioni con i clienti e recite scolastiche. Fra mansioni da portare a termine e figli da accompagnare a nuoto.

Anche Un articolo pubblicato su Pianeta Donna ci spiega molto bene alcuni concetti diventati oggi assolutamente attuali.

Sociologicamente la scelta delle donne di cimentarsi nel mondo del lavoro, uscendo dal ruolo tradizionale di casalinghe, si è sviluppata anche sul piano della parità di genere, tuttavia nell’ultimo ventennio le cose sono molto cambiate. Oggi il lavoro si risolve più comunemente in un bisogno materiale: le donne hanno la necessità di guadagnare per contribuire al sostentamento della famiglia. E questo è quanto basta a spiegare moltissimi sacrifici e molte “privazioni emotive”.

LE MAMME CHE LAVORANO RINUNCIANO MOLTO A MALINCUORE AL TEMPO CON I FIGLI E SACRIFICANO FATICOSAMENTE L’ORDINE E LA PERFEZIONE DELLA LORO CASA IN NOME DELLA PRODUTTIVITÀ.

Produttività per le mamme che lavorano non equivale necessariamente a soddisfazione, successo o scalata carrierista, aspetti che possono fare parte del mondo del lavoro di chiunque altri; spesso le madri “corrono contro il tempo” perché hanno un bisogno tangibile, concreto e materialmente comprovabile di guadagnare. I frutti del lavoro delle mamme non sempre costituiscono un di più, sovente servono a riempire il frigorifero e pagare le bollette. Pertanto, le donne che lavorando vanno oltre i bisogni ordinari della famiglia non sono solo delle eroine moderne: sono delle fortunate eroine del giorno d’oggi.

La vita moderna ha un costo elevatissimo, i figli non crescono più come una volta e hanno dei bisogni materiali certamente maggiori, se non massimizzati dalla società moderna, che è innegabilmente improntata al “possedere”. In questo senso il danaro necessario per vivere è certamente tanto, ne serve più di quello che bastava a una famiglia comune un decennio fa.

LE MAMME CHE LAVORANO VIVONO IN MODO EROICO PER UNA SERIE DI MOTIVI.

Senza voler sminuire l’importanza del lavoro domestico, è indubbio che le mamme lavoratrici sono costrette a coordinare il lavoro fuori casa con quello in casa, senza trascurare le necessità organizzative imposte dai diversi impegni dei figli (che non solo vanno accompagnati a scuola, ma anche a calcetto, a chitarra, a prendere lezioni d’inglese e al catechismo, senza contare le feste!).

I principali sensi di colpa secondo il sondaggio su Vanity Fair:

  1. Il senso di colpa più diffuso fra le mamme che lavorano? Quello dovuto alla stanchezza. Un buon 40% delle mamme dichiara di accusare molta stanchezza proprio durante i momenti da dedicare ai figli.
  2. Al secondo posto fra i sensi di colpa più diffusi fra le mamme che lavorano c’è quello dovuto alla fretta. Il 33% delle donne intervistate sa di essere sempre di corsa. E riconosce che le frasi più ricorrenti dette ai figli sono “Fai prestooo!”, “Siamo in ritardo!” e “Muovitiii!”.
  3. Senso di colpa numero tre: la mancanza, sempre secondo il punto di vista delle mamme che lavorano,  di tempo passato insieme ai figli, accompagnato addirittura (per un piccolo 15% del campione) dall’ansia di non essere riconosciute dai propri piccoli.
  4. Al di là dei sensi di colpa, cosa pesa di più alle mamme che lavorano? A questa domanda del sondaggio corrisponde come risposta, per 4 mamme su 10, il timore di gravare sui nonni, che dopo una vita di lavoro avrebbero diritto a godersi la pensione e che, invece, si ritrovano a farsi carico dei nipoti.
  5. Un’altra situazione che pesa alle mamme che lavorano? Per il 23% delle intervistate, l’idea di mollare spesso il proprio pargolo davanti alla tv e ai videogiochi, con il rischio di lasciargli vedere programmi inappropriati e fonti di possibili atteggiamenti sbagliati o aggressivi.
  6. La necessità, per il 20% delle intervistate, di usufruire di un servizio di doposcuola o quello di un centro estivo. Che, per quanto comodi, hanno un costo.
  7. Per il 63% delle mamme, il problema nasce da loro o, per meglio dire, dalle loro paranoie. In molti altri casi, invece – risponde l’11% delle intervistate – il responsabile di tante ansie è il proprio capo, ritenuto poco sensibile e solidale rispetto alle esigenze legate ai figli. Terza fonte di sensi di colpa: il confronto con la propria madre. Che non lavorava e riusciva a dedicarsi al 100% ai figli.
  8. Cosa pensano, invece, i figli, delle loro mamme lavoratrici? Ebbene, per il 32% delle intervistate, i propri figli ritengono di avere una mamma che corre sempre ed è preda di costanti crisi di nervi; per il  30% i propri figli pensano di avere una mamma “fichissima”; per il 28% i propri pargoli le giudicano esemplari. C’è tuttavia un 10% di donne che temono di essere giudicate delle mamme assenti, perché troppo assorbite dal lavoro.

Preferisco l’ordinario allo straordinario, l’intervista a Maria Grazia Tore

Questa settimana vogliamo parlare di una donna reale, si chiama Maria Grazia Tore, di professione fa l’autrice e la poetessa (nome d’arte Luna) e ha una vita…molto particolare. Una donna piena di forza e di grazia, una donna coraggiosa, che, come le nostre 5 protagoniste del film, non si arrende mai…

Il film “Secondo Piano Scala B” racconta la storia di 5 donne che hanno caratteristiche molto diverse fra loro: una è accomodante, una è impulsiva, una non riesce a dire no, un’altra è molto risoluta, e infine una è illusa nel suo presente: quale tipo di donna ti senti di più?
Trovare sempre la soluzione ad ogni problema, impegnarmi in tutto e per tutto – almeno per quanto dipende da me – fare tutto il possibile. Mi rispecchio anche in chi non riesce a dire di no, perché il desiderio fondamentale reciproco di aiutarsi e di aiutare sembra impossibile alla rinuncia. Anche se, purtroppo, bisogna imparare anche a dire di no, ma solo con le circostanze pian piano si definisce il giusto equilibrio; non tutti siamo uguali, non tutti la pensiamo allo stesso modo, è importante rispettare l’opinione di ciascuno, le ideologie, le differenti culture e i sentimenti. Diversamente, non saremo persone, ma standard! Preferisco essere una persona con tutti i miei errori, i miei difetti (forse qualche pregio che lascio valutare a chi mi legge). In tutti i miei aspetti voglio essere sempre vera e sincera.

 Su quale media ti piacerebbe vedere “Secondo Piano Scala B” (cinema, TV, web)?
La risposta istintiva va sulla TV, ma visto l’avanzamento tecnologico forse direi più verso il web. I computer, i vari dispositivi e applicazioni scaricabili ovunque, danno una visione immediata ai programmi, forse del tutto ignari del pericolo che questo comporta nella società odierna e nelle famiglie. Forse sarebbe più utile prendere i nostri figli e portarli all’aria aperta, dialogare, imparare ad ascoltare, riformulare i piccoli gesti umani fatti di sentimento e non di videogiochi o quant’altro i servizi tecnologici offrono! Forse meglio andare in una bella pizzeria e poi al cinema a vedersi “Secondo Piano Scala B”. Sentirsi a casa!

In cosa è stra-ordinaria la tua vita? Quale aneddoto o episodio o evento vissuto ti ha aiutata nella vita di tutti i giorni, nell’ordinario?
Avere una figlia non vedente cambia il tuo modo di vedere. Non più attraverso gli occhi, ma con il cuore si determina la mia quotidianità. Scrivere, esprimere le proprie emozioni, condividere ciò che si ha nel cuore, avere fede, pazienza e speranza per poter incoraggiare gli altri a non arrendersi mai, quando tutto è difficile, quando tutto è buio…una piccola luce, seppur piccola, fa la differenza! Non voglio essere niente e nessuno, non voglio essere neanche ascoltata! Non voglio parlare per dire la mia, non voglio esistere per essere un numero in più tra la gente! Preferisco il silenzio al rumore assordante, preferisco una lacrima alla ragione, preferisco l’ordinario allo straordinario! Ma se siamo chiamati a svolgere un compito, una responsabilità, un’opinione, uno stile di vita, allora mi schiero in prima fila, esco allo scoperto, dico la mia, indago, faccio ricerche, cerco la soluzione al problema, mi avvalgo di collaboratori che mi guidano e mi indirizzano nei luoghi giusti, non mi fermo mai al primo tentativo, o al primo fallimento, vado avanti, perseguo la meta. Quando il percorso è difficile, segnato da numerosi ostacoli, allora sono ancora più forte, reagisco all’ignoto per raggiungere l’obiettivo! Auguro alle protagoniste di questo film di trarre il meglio da ogni situazione, perché le eroine non dobbiamo vederle solo al cinema o nelle situazioni irreali, sono persone come noi, nel quotidiano con una forza in più, un obiettivo in comune unito alle loro capacità e complessità personali, integrative e sociali. Ogni giorno dobbiamo essere in azione per lasciare qualcosa di nostro a dei valori che stanno scomparendo. Allora vedremo il serial più bello e creativo perché saranno il coraggio, l’audacia e la costanza delle protagoniste a lasciare un segno.

Sei anni senza Mariangela Melato, antidiva e anticonformista

Sei anni oggi senza Mariangela Melato.
Antidiva e anticonformista, versatile, in una delle ultime interviste rilasciata a La Repubblica ha raccontato: “Mi vedevo diversa da tutte le altre: senza seno, senza sedere, magretta. E invece è andata bene ogni volta”

Poco prima di andarsene, ha rilasciato una intervista a Isabella Bossi Fedrigotti de “La Repubblica”, raccontando tanto della sua vita, dei suoi amori e della sua passione immensa per il cinema e il teatro. Nata a Milano, figlia di un vigile urbano e di una sarta, assieme alla sorella Anna e al fratello Ermanno hanno vissuto un’infanzia felice. Mariangela ha sempre coltivato la passione per il mondo dello spettacolo. Tanto è vero che, poco più che adolescente, ha lasciato casa per inseguire il suo sogno più grande: fare l’attrice. Prosegue così il suo racconto.

Visconti? Avevo 17 anni, ricordo il suo cappotto di cashmere. Andò così. Stava facendo dei provini a Roma per ‘La monaca di Monza’ e io volevo esserci a tutti i costi. Dissi alla mamma che andavo al cinema con un’amica e, invece, presi il treno per Roma. Incontrai il mitico Luchino e mi parve bellissimo, affascinatissimo, elegantissimo nel suo cappotto scuro. Avendomi a un certo punto presa sottobraccio, sentii per la prima volta cos’era il cashmere! Feci dunque il provino e poi Visconti chiese: “Te li taglieresti i capelli?” che io portavo lunghi, diritti, con la frangia sugli occhi, alla Juliette Greco, insomma. “Anche i piedi, signor conte” gli risposi pronta. E fui scritturata. Nella notte ripresi il treno per Milano e a casa la mamma me le diede di santa ragione. Poi, però, venne alla prima, e Visconti fu gentilissimo con lei. Li sentivo parlare, lui, il gran signore dall’italiano meraviglioso che, in dialetto milanese, per metterla a suo agio, diceva: “L’è bela, la tusa, l’è bela, però la gha anca du ball”, e la mia mamma, che si esprimeva quasi solo in dialetto, morta di soggezione, si sforzava di rispondergli in lingua: “Sì… effettivamente… signor conte… la ragazza ha le palle…”. Invece con Renzo (Arbore, ex fidanzato storico) la mamma andava giù piatta in milanese. S’immagini: lui, napoletano di Foggia, non capiva un’acca. Alla prima di “El noss Milan” con Strehler (del quale mi aveva pronosticato pessimista: “El te ciapa no, quel Strehler lì”), lei gli stava seduta accanto e pretese di spiegargli la trama, facendolo naturalmente in dialetto”.

Mariangela Melato, innumerevoli anni di carriera teatrale e cinematografica alle spalle, è sempre apparsa come una donna felicemente “normale”, e cioè intelligente, spiritosa, curiosa, semplice, sapiente. “Sapevo fin da piccola che questo era il mio mestiere, anche se mi vedevo diversa da tutte le altre che lo facevano: senza seno, senza sedere, magretta, gli occhi troppo distanti e il vocione. E invece è andata bene ogni volta, tutti i numerosi provini che ho fatto nella mia vita sono andati a buon fine, un po’ come quello con Luchino Visconti. E i ruoli, i lavori che sceglievo, anche quelli più ostici, miracolosamente hanno sempre avuto successo. Ricordo, per esempio, una ‘Fedra’ di Racine che decisi di interpretare, in versi, sia pure mirabilmente tradotti da Giovanni Raboni. Perfino Ronconi – si era mostrato perplesso quando gliene parlai. Per non dire di Renzo (sempre Arbore, ndr), che mi chiese: “Che storia sarebbe?” mi chiede. “Mah, una storia antica, greca, che finisce male, e io sono vestita di nero da capo a piedi e recito in rima”. “Neanche morto ti vengo a vedere!”. Poi però venne e fu un trionfo di pubblico.

Se non fosse riuscita a diventare attrice ha dichiarato più volte che avrebbe voluto fare la stilista, grazie al suo gusto e sentimento per gli abiti, per la loro capacità di seduzione “Non mi piacciono scollature e tacchi alti. Ho la presunzione di voler piacere per come sono, vestita in modo pudico, adatto alla mia mancanza di giovinezza. “Andate a cercare altrove” direi agli uomini cui piacciono le donne con il tacco dodici”.

E conclude la sua intervista con una affermazione, assolutamente “moderna”, che calza benissimo con i tempi che stiamo vivendo. “Penso di essermi comportata bene, prima di tutto con me stessa. Non ho mai avuto protettori di alcun genere e con un po’ di ironia me la sono cavata nelle situazioni, diciamo “scabrose”, che sono capitate anche a me. Ce la si può fare, insomma, pur senza andare a letto con regista o produttore. Per il futuro nostro, mi dispiace molto, invece, che il mondo sia così poco ospitale, così difficile per i ragazzi. E per mondo intendo, ovviamente, la natura, le città, la società, ma anche il lavoro, quello mio nel caso specifico”.

 

Il vocabolario dei series addicted: dagli spin-off alle OTP

«Sai, ieri ho visto il pilot della nuova comedy della ABC che in realtà sarebbe il remake di…». Pausa. «Aspetta. Ma hai capito cosa sto dicendo?».
Spesso i miei interventi hanno questo risvolto perché mi sembra di aver parlato un’altra lingua, come se avessi usato una forma di comunicazione aliena. E invece sono solo un’esperta del gergo televisivo usato dai series addicted. Chi è dipendente dalle serie TV sviluppa quindi anche un nuovo modo di parlare che può risultare curioso a chi è estraneo al meraviglioso mondo di OINTB, GOT e compagnia bella.

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Il lato femminista delle soap opera

Il nome “soap opera” deriva dal fatto che questo genere di prodotto, nato per la radio, veniva inframezzato da annunci pubblicitari di articoli per la casa come saponi o detersivi. Sin dalle sue origini era specificatamente pensato per un’audience di casalinghe, infatti la sua forma narrativa lenta e piena di ripetizioni favoriva l’ascolto distratto delle donne, nel frattempo impegnate nei lavori domestici. Non sembra quindi un grande esempio di empowerment. Eppure, a conti fatti, anche le soap opera hanno avuto un ruolo nell’emancipazione femminile…

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Le donne e il cinema nell’India di oggi (verso l’uguaglianza di genere)

La giovane attrice Taapsee Pannu, protagonista di vari film, al “Festival River to River” di Firenze (‘festival che celebra quest’anno il suo 18° compleanno, in coincidenza col 70° anniversario delle relazioni diplomatiche tra i due paesi), sottolinea il contributo delle donne al cambiamento verso l’uguaglianza, anche se rimane molto da fare.

L’India sta cambiando e l’emancipazione femminile è uno dei segni più evidenti e dei motori di questo cambiamento. Forse a noi distratti osservatori ciò che avviene in Oriente ci sfugge e siamo ancora legati a consolidati stereotipi. Il cinema indiano è senz’altro un veicolo di conoscenza della realtà di quel grande paese che negli anni Sessanta-Settanta ha esercitato un fascino ed un richiamo sulle giovani generazioni, su quei ragazzi desiderosi di pace, non violenza, spiritualità, di fuga dall’Occidente che proprio nel ’68, esattamente 50 anni fa, spinse anche i Beatles a raggiungere Rishikesh, alle pendici dell’Himalaya, per meditare sotto la guida dell’intraprendente guru Maharishi Mahes Yogy.

È da quella loro contraddittoria esperienza (ben descritta nel documentario in bianco e nero realizzato da Furio Colombo), e riproposto al River to River dedicato al cinema indiano a Firenze (dal 6 all’11 dicembre) che lo spettatore è portato alla scoperta di una realtà in larga parte sconosciuta. Si deve infatti sapere – e ce lo ricorda l’ambasciatore indiano in Italia Reenat Sandhu – che “l’industria cinematografica indiana è la maggior produttrice di film nel mondo, con una crescita del fatturato del 27% nel 2017 e, aggiunge, oltre all’innovazione tecnologica sono i contenuti e le storie di qualità che diventano sempre più importanti per il successo”.

Le sue parole trovano un’eco anche in quelle della bella e giovane attrice indiana Taapsee Pannu, giunta a Firenze per presentare il film di cui è protagonista a fianco di Rishi Kapdor dal titolo “Mulk” del regista Anubhav Sinha.

Nel film Taapsee interpreta il ruolo dell’avvocato difensore di una famiglia di musulmani a Varanasi accusata di essere coinvolta nel piano di un attacco terroristico sulla città. Un film crudo che offre uno spaccato umano e sociale su una realtà del nostro tempo. La bella e cordialissima Taapsee, presente al Cinema La Compagnia di Firenze dove si svolge questa Rassegna e lei affronta subito il cuore del problema,, ha rilasciato un’intervista al magazine Lindro dove dichiara: “In India sono in corso grandissimi cambiamenti, enormi ma c’è ancora molto da fare per una vera uguaglianza. La cosa più interessante è che questa evoluzione sociale e dei costumi non è rappresentata soltanto dal cinema d’autore, ma anche da quello commerciale, la si riscontra al box office. I molti film destinati al grande pubblico narrano storie che infrangono tabù ritenuti un tempo inviolabili: un film, ad esempio, affronta il tema della disfunzione erettile, altri di donne che scelgono il proprio destino…o rivendicano la propria indipendenza.

Le donne sono protagoniste di questo cambiamento, ed il pubblico oggi vuole storie vere, non distanti dalla realtà com’era avvenuto prima. La mia presenza qui, per raccontare i film da me interpretati, è la conseguenza di questo cambiamento in atto, certo per una vera uguaglianza fra generi c’è ancora molto da fare, ma il cambiamento è in corso. E il cinema lo rappresenta, sfatando quegli stereotipi sull’India che ancora permangono in varie parti“.

E l’intervista di Lindro prosegue verso Selvaggia Velo, ideatrice  e direttrice di questo festival. “Ormai siamo  maggiorenni”  – mi dice – “e per l’occasione  abbiamo cercato di completare la proposta festivaliera con tavole rotonde e con la presenza del cibo come protagonista di alcune proiezioni, oltre che con dei corsi di cucina del Cescot. Offriamo al pubblico italiano un ‘idea dell’India contemporanea a 360° proponendo commedie, film importanti e cortometraggi, tematiche e storie diverse. E tra queste, una tematica importante è quella delle donne, del loro ruolo nella società, delle lotte che devono sostenere per i propri diritti. Ad esempio Chitra (nude) di Ravi Jadhav, una coproduzione con la Francia, narra la storia di una donna -Yamuna – che abbandonata dal marito con un figlio di 12 anni da mantenere,  si trasferisce dal suo villaggio a Mumbai dove l’unico lavoro che trova è quello di una modella alla scuola di nudo in un istituto d’arte. Quel film è stato bandito da vari festival internazionali”

Certo, sono passati 50 anni da quando il richiamo dell’India era forte e masse di giovani in cerca di un altrove diverso e di pratiche di meditazione, si avventuravano verso quel fascinoso mondo, abbandonando presto – come accadde anche ai Beatles sotto gli occhi attenti di Mia Farrow e di Furio Colombo – la loro spavalderia mistica. Alla quale, in Occidente si sono preferite pratiche yoga e filosofie utilitaristiche.Quel mondo dunque che si sta avvicinando. Ma ne sappiamo ancora poco tanto è vario, complesso e contraddittorio, in bilico tra modernità e tradizione.

Guida galattica ai Fandom

Social, forum, cosplay, fiere… Non c’è davvero epoca migliore per essere parte di un fandom– gli anglofoni direbbero “What a great time to be alive” (Che grande momento per essere vivi). Ma, prima di iniziare, è bene chiarire una volta per tutte cosa sia, questo benedetto fandom. Lo si potrebbe definire, in maniera molto semplice, come il raggruppamento di tutti i fan di una determinata opera, che sia letteraria, cinematografica, televisiva o musicale – campi in cui il termine è più spesso adoperato.

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Sette donne per capire il lavoro che verrà

Sette donne, un palco e dieci minuti per rispondere alla domanda: «Come sarà il lavoro del futuro?».

Dal Sole 24 Ore ci arriva una buona notizia, pubblicata da Greta Ubbiali.

Lo scorso lunedì 19 novembre, ospiti dello showroom Microsoft, ognuna di loro ha portato la propria visione, frutto di esperienze e generazioni differenti. L’evento “Donne di Futuro” è nato dall’ebook pubblicato dal Sole 24 Ore che ha ripercorso le peculiarità di cinque generazioni, dai Babyboomers alla Generazione Z, passando attraverso le conquiste della Generazione X, la libertà dei Millennials e le incertezze degli Xennials.

L’intento del progetto è quello di mettere a confronto cinque generazioni che si trovano a vivere il cambiamento del mondo del lavoro e devono immaginarsi quello del futuro.

Presenti Barbara Cominelli, direttore marketing & operations di Microsoft Italia che ha voluto sottolineare il paradosso tra il tasso di disoccupazione, maggiore tra le donne, e i tanti posti vacanti difficili da coprire per carenza di competenze digitali. «Da qui al 2020 mancheranno 135mila posti di lavoro nell’ICT. Eppure c’è un numero che fa male. È quel 40% di donne tra i 25 e i 29 anni che attualmente non studia e non lavora» ha commentato. Uno dei problemi maggiori è che le ragazze non sono attratte dalle materie STEM. Non è il frutto di incapacità femminile ma, dice la manager, di 30 anni di marketing fatto male: «è passato uno stereotipo terribile: che le donne non siano portate per la tecnologia e che i lavori tecnologici non siano cool per le ragazze». Nasce così il progetto “Coding girls”, per mostrare come la programmazione informatica non sia solo per tecnici ma che serva a dare una piccola cassetta degli attrezzi per le professioni del futuro.

Al lavoro del futuro però è necessario applicarsi fin da oggi. E lo spiega bene Monica Magri, HR & organization director di Adecco Group Italia, che nel suo intervento intitolato “Alleanza e partecipAzione per il lavoro di domani” dice «pensare al futuro come lontano è pericoloso e ci porta a procrastinare, come se fosse qualcosa che non ci riguarda da vicino. Il futuro è domani e quindi dobbiamo prepararci già oggi». Ma servono anche uno sguardo ottimista e normalità perché «solo quando non farà più clamore una donna che entra in un board o che diventa CEO; quando sarà normale chiedere un aumento senza sentirci in colpa avremo fatto tanti passi avanti».

Sara Cabitza, ingegnere aerodinamico nel team Formula1 di Renault Sport Racing, aggiunge un’altra parola chiave: competitività che – svela alla platea – «è nel dna di chi lavora in F1». La sfida infatti non è solo in pista tra i piloti ma anche tra gli ingegneri che hanno concorso a quell’obiettivo. «Quando vedo le macchine nel circuito io vedo il mio lavoro correre per la vittoria», dice fiera.

A volte il futuro riserva lavori che non ci saremmo mai immaginati da bambini. È il caso del maggiore dell’Aeronautica Militare Federica Maddalena, pilota di eurofighters, che ricorda: «da piccola non osavo sognare una carriera del genere. Negli anni ’80 non c’erano modelli di riferimento, donne pilota o militari. A dire il vero, neppure cartoni animati che proponessero figure femminili forti». Ma i tempi cambiano e dal 2000 le donne nelle forze armate possono rivestire tutti gli incarichi, senza limitazioni di genere. «Ancora non ci sono donne con il grado di generale ma, sono certa, arriveranno», osserva Maddalena. Dal palco il maggiore sprona le donne di futuro ad osare: «nei sogni e nelle ambizioni. Non abbiate paura delle vostre potenzialità perché – conclude – il cielo non ha limiti per volare sempre più in alto».

Non c’è un’unica via per realizzare i propri sogni. Lo dimostra la storia personale di Aurora Zancanaro, titolare del micropanificio Le Polveri. Dopo una laurea in chimica ed esperienze da assegnista di ricerca ha capito che non era quella la sua strada e si è reinventata. Nella lievitazione del pane Zancanaro ha trovato il suo “piano BE“, termine da lei coniato perché: «’piano B’ di solito ha una accezione negativa, un modo per minimizzare una sconfitta. Invece la aggiunta finale della ‘e’ per me significa che uno decide cosa vuole essere e cerca di avvicinarsi alla sua autenticità».

Con il nuovo millennio sono cambiati i modelli di riferimento sia nella cultura che nel lavoro. L’hanno raccontato le ultime due speaker della serata: Sofia Viscardi e Yasmin El Arbaoui, voci della Generazione Z.
Viscardi, creator e scrittrice con oltre 700mila iscritti al canale Youtube e 1.5 milioni di fan su Instagram, ha parlato delle potenzialità della rivoluzione tecnologica con cui lei e la sua generazione sono cresciuti. «Da una parte viene aspramente criticata – spiega – ma permette di fare incontrare le persone a prescindere dalle distanze fisiche creando delle community, attorno ad uno youtuber o attorno ad un argomento». E questi incontri portano a risultati fino a pochi anni fa insperati. Internet diventa un facilitatore del cambiamento e, riflette, «temi che un tempo venivano spinti solo da manifestazioni e proteste fisiche oggi hanno la possibilità di essere portati avanti da comunità on line». Dal web le proteste arrivano a migliorare le condizioni sociali delle persone. É il caso del cosiddetto movimento “MeToo” che ha acceso un faro sulla questione della sicurezza delle donne.

Yasmin El Arbaoui, studentessa di giurisprudenza, ha invece avvicinato il pubblico al mondo dei giovani smontando i clichè che li vogliono indolenti, allergici al lavoro e privi di ideali. «Sono cambiati i sogni ma non è cambiata la volontà di realizzarli» riassume El Arbaoui. Quello dei ragazzi è un universo fatto di ambizioni, desideri ma anche di lavori poco gratificanti da cui si passa mentre si cerca la propria strada. Centrale è la funzione della rete. Sui social network i giovani creano contatti, esprimono loro stessi e cercano anche lavoro «tra un video di gattini e un tweet di Donald Trump», commenta ironicamente la ragazza.

La serata si è conclusa con il monologo della carrer e comunication coach oltre che performer Valentina Capone, “Stasera non posso”. Dalle donne nella tragedia greca a Beyoncé passando per l’arte di Artemisia Gentileschi, l’attrice ripercorre la storia e rammenta alle donne in platea: «dobbiamo imparare a sostenerci tra noi, a fare squadra».

E proprio il filo rosso che unisce le diverse generazioni continuerà ad alimentare il progetto “Donne di Futuro – Generazioni a confronto sul lavoro di domani”, che vedrà presto nuovi capitoli.

Il crowdfunding salverà il mondo (del cinema)?

Il crowdfunding è una modalità di finanziamento che prevede che le persone “comuni” raccolgano in forma di contributi una somma di denaro, precedentemente stabilita, per realizzare progetti innovativi.
Nel mondo del cinema è una pratica sempre più diffusa. Negli Stati Uniti in particolare, sono ormai tantissimi i giovani registi che si affidano a questo tipo di finanziamento. Sia perché questo permette loro di avere una maggiore libertà decisionale, sia perché permette al film di farsi conoscere, prima ancora della sua realizzazione.

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Comunicazione di genere, la TV tra le pagine di un libro

“La comunicazione di genere. Prospettive teoriche e buone pratiche” (Carocci editore) scritto da Saveria Capecchi, Professoressa di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Bologna, è un testo molto interessante da poco uscito.

Il Centro delle Donne “Orlando” di Bologna ha ospitato il 25 ottobre 2018 la presentazione del libro.
Al dialogo, hanno partecipato, Leda Guidi, co-founder della Rete Civica Iperbole di Bologna, docente della nostra LM, membro del Consiglio delle responsabili dell’Associazione Orlando, e dell’Associazione “Villes Internet”, esperta di ICT, comunità intelligenti, diritti digitali e Linda Serra, fondatrice di Girl Geek Dinners Bologna e presidente di Work Wide Women.

Come riporta la piattaforma della Comunicazione Pubblica e d’Impresa di Bologna, la guida è rivolta alle studentesse e agli studenti, giornaliste e giornalisti, operatrici ed operatori dei settori dell’informazione e della comunicazione per sensibilizzare ad adottare una prospettiva inclusiva e valorizzare la soggettività femminile.

Bisogna ampliare lo sguardo, amplificare l’empowerment femminile, le voci e i ruoli delle donne, migliorare efficacia e qualità della comunicazione pubblica, dotarsi di maggiore sensibilità, per una comunicazione più mirata e adeguata. Valorizzare le donne è un vantaggio culturale, sociale, politico. Significa rappresentare la cittadinanza, rendere la società più democratica, pluralistica, inclusiva e favorire l’occupazione femminile come vantaggio di crescita del prodotto interno lordo.

Sulla Rivista “Il Paese delle donne online”, è stato pubblicato un bellissimo articolo di Marina Pivetta, che sin dalle prime righe afferma: “Ho finito di leggere l’ultimo lavoro di Saveria Capecchi ‘La comunicazione di genere. Prospettive teoriche e buone pratiche’ ieri, lo stesso giorno in cui è andata in onda la TV Delle Ragazze di Serena  Dandini su Rai 3.  Una coincidenza che però mi ha dato modo di riflettere su quante cose siano cambiate in meglio da quegli anni Settanta o meglio da quando il secondo femminismo ha cominciato a fare i suoi primi passi. Satira e ironia fanno ormai parte di un patrimonio culturale che molte autrici e attrici maneggiano con destrezza. Si può scherzare su tutto, soprattutto su se stesse perché il senso di sé diventa baricentro di una forte identità di genere. Così l’io e il noi si intrecciano, danzano, interagiscono senza confondersi. È come se i femminismi avessero fatto evaporare ogni gabbia ideologica, sprigionando nuove libertà, nuove idee, nuovi modi di partecipare…Lo spettacolo di Dandini, è FARE cultura. E, la materialità del fare sta nella mimica, nella didascalia, nella graffiante sinteticità di chi interpreta nuovi modi di essere donna”.

E prosegue: “Il libro della Capecchi è prezioso proprio perché permette di mettere ordine. Di capire dove collocare l’emancipazionismo, l’egualitarismo, il pensiero della differenza, la cultura di genere, le pari opportunità, il post femminismo, l’empowerment, il determinismo  biologico, il sesso, il genere, la teoria del gender…”.