Le vere eroine di oggi? Le mamme che lavorano (con tanti sensi di colpa)

Anche un sondaggio lo rivela: l’azienda Groupon ha intervistato un campione di circa 650 donne, provenienti da tutte le regioni d’Italia e di età compresa per lo più fra i 35 e i 54 anni.

Ben 8 mamme lavoratrici su 10 si sentono “in difetto” nei confronti dei figli: conciliare famiglia e professione non è semplice. E infatti molte delle mamme che lavorano convivono con costanti sensi di colpa (e si dimenticano i loro punti di forza).
Lo rivela Vanity Fair: essere mamma e lavorare equivale a fare l’acrobata. Sì, perché tenere in equilibrio famiglia e professione significa destreggiarsi ogni giorno fra ufficio e figli. Fra riunioni con i clienti e recite scolastiche. Fra mansioni da portare a termine e figli da accompagnare a nuoto.

Anche Un articolo pubblicato su Pianeta Donna ci spiega molto bene alcuni concetti diventati oggi assolutamente attuali.

Sociologicamente la scelta delle donne di cimentarsi nel mondo del lavoro, uscendo dal ruolo tradizionale di casalinghe, si è sviluppata anche sul piano della parità di genere, tuttavia nell’ultimo ventennio le cose sono molto cambiate. Oggi il lavoro si risolve più comunemente in un bisogno materiale: le donne hanno la necessità di guadagnare per contribuire al sostentamento della famiglia. E questo è quanto basta a spiegare moltissimi sacrifici e molte “privazioni emotive”.

LE MAMME CHE LAVORANO RINUNCIANO MOLTO A MALINCUORE AL TEMPO CON I FIGLI E SACRIFICANO FATICOSAMENTE L’ORDINE E LA PERFEZIONE DELLA LORO CASA IN NOME DELLA PRODUTTIVITÀ.

Produttività per le mamme che lavorano non equivale necessariamente a soddisfazione, successo o scalata carrierista, aspetti che possono fare parte del mondo del lavoro di chiunque altri; spesso le madri “corrono contro il tempo” perché hanno un bisogno tangibile, concreto e materialmente comprovabile di guadagnare. I frutti del lavoro delle mamme non sempre costituiscono un di più, sovente servono a riempire il frigorifero e pagare le bollette. Pertanto, le donne che lavorando vanno oltre i bisogni ordinari della famiglia non sono solo delle eroine moderne: sono delle fortunate eroine del giorno d’oggi.

La vita moderna ha un costo elevatissimo, i figli non crescono più come una volta e hanno dei bisogni materiali certamente maggiori, se non massimizzati dalla società moderna, che è innegabilmente improntata al “possedere”. In questo senso il danaro necessario per vivere è certamente tanto, ne serve più di quello che bastava a una famiglia comune un decennio fa.

LE MAMME CHE LAVORANO VIVONO IN MODO EROICO PER UNA SERIE DI MOTIVI.

Senza voler sminuire l’importanza del lavoro domestico, è indubbio che le mamme lavoratrici sono costrette a coordinare il lavoro fuori casa con quello in casa, senza trascurare le necessità organizzative imposte dai diversi impegni dei figli (che non solo vanno accompagnati a scuola, ma anche a calcetto, a chitarra, a prendere lezioni d’inglese e al catechismo, senza contare le feste!).

I principali sensi di colpa secondo il sondaggio su Vanity Fair:

  1. Il senso di colpa più diffuso fra le mamme che lavorano? Quello dovuto alla stanchezza. Un buon 40% delle mamme dichiara di accusare molta stanchezza proprio durante i momenti da dedicare ai figli.
  2. Al secondo posto fra i sensi di colpa più diffusi fra le mamme che lavorano c’è quello dovuto alla fretta. Il 33% delle donne intervistate sa di essere sempre di corsa. E riconosce che le frasi più ricorrenti dette ai figli sono “Fai prestooo!”, “Siamo in ritardo!” e “Muovitiii!”.
  3. Senso di colpa numero tre: la mancanza, sempre secondo il punto di vista delle mamme che lavorano,  di tempo passato insieme ai figli, accompagnato addirittura (per un piccolo 15% del campione) dall’ansia di non essere riconosciute dai propri piccoli.
  4. Al di là dei sensi di colpa, cosa pesa di più alle mamme che lavorano? A questa domanda del sondaggio corrisponde come risposta, per 4 mamme su 10, il timore di gravare sui nonni, che dopo una vita di lavoro avrebbero diritto a godersi la pensione e che, invece, si ritrovano a farsi carico dei nipoti.
  5. Un’altra situazione che pesa alle mamme che lavorano? Per il 23% delle intervistate, l’idea di mollare spesso il proprio pargolo davanti alla tv e ai videogiochi, con il rischio di lasciargli vedere programmi inappropriati e fonti di possibili atteggiamenti sbagliati o aggressivi.
  6. La necessità, per il 20% delle intervistate, di usufruire di un servizio di doposcuola o quello di un centro estivo. Che, per quanto comodi, hanno un costo.
  7. Per il 63% delle mamme, il problema nasce da loro o, per meglio dire, dalle loro paranoie. In molti altri casi, invece – risponde l’11% delle intervistate – il responsabile di tante ansie è il proprio capo, ritenuto poco sensibile e solidale rispetto alle esigenze legate ai figli. Terza fonte di sensi di colpa: il confronto con la propria madre. Che non lavorava e riusciva a dedicarsi al 100% ai figli.
  8. Cosa pensano, invece, i figli, delle loro mamme lavoratrici? Ebbene, per il 32% delle intervistate, i propri figli ritengono di avere una mamma che corre sempre ed è preda di costanti crisi di nervi; per il  30% i propri figli pensano di avere una mamma “fichissima”; per il 28% i propri pargoli le giudicano esemplari. C’è tuttavia un 10% di donne che temono di essere giudicate delle mamme assenti, perché troppo assorbite dal lavoro.

Preferisco l’ordinario allo straordinario, l’intervista a Maria Grazia Tore

Questa settimana vogliamo parlare di una donna reale, si chiama Maria Grazia Tore, di professione fa l’autrice e la poetessa (nome d’arte Luna) e ha una vita…molto particolare. Una donna piena di forza e di grazia, una donna coraggiosa, che, come le nostre 5 protagoniste del film, non si arrende mai…

Il film “Secondo Piano Scala B” racconta la storia di 5 donne che hanno caratteristiche molto diverse fra loro: una è accomodante, una è impulsiva, una non riesce a dire no, un’altra è molto risoluta, e infine una è illusa nel suo presente: quale tipo di donna ti senti di più?
Trovare sempre la soluzione ad ogni problema, impegnarmi in tutto e per tutto – almeno per quanto dipende da me – fare tutto il possibile. Mi rispecchio anche in chi non riesce a dire di no, perché il desiderio fondamentale reciproco di aiutarsi e di aiutare sembra impossibile alla rinuncia. Anche se, purtroppo, bisogna imparare anche a dire di no, ma solo con le circostanze pian piano si definisce il giusto equilibrio; non tutti siamo uguali, non tutti la pensiamo allo stesso modo, è importante rispettare l’opinione di ciascuno, le ideologie, le differenti culture e i sentimenti. Diversamente, non saremo persone, ma standard! Preferisco essere una persona con tutti i miei errori, i miei difetti (forse qualche pregio che lascio valutare a chi mi legge). In tutti i miei aspetti voglio essere sempre vera e sincera.

 Su quale media ti piacerebbe vedere “Secondo Piano Scala B” (cinema, TV, web)?
La risposta istintiva va sulla TV, ma visto l’avanzamento tecnologico forse direi più verso il web. I computer, i vari dispositivi e applicazioni scaricabili ovunque, danno una visione immediata ai programmi, forse del tutto ignari del pericolo che questo comporta nella società odierna e nelle famiglie. Forse sarebbe più utile prendere i nostri figli e portarli all’aria aperta, dialogare, imparare ad ascoltare, riformulare i piccoli gesti umani fatti di sentimento e non di videogiochi o quant’altro i servizi tecnologici offrono! Forse meglio andare in una bella pizzeria e poi al cinema a vedersi “Secondo Piano Scala B”. Sentirsi a casa!

In cosa è stra-ordinaria la tua vita? Quale aneddoto o episodio o evento vissuto ti ha aiutata nella vita di tutti i giorni, nell’ordinario?
Avere una figlia non vedente cambia il tuo modo di vedere. Non più attraverso gli occhi, ma con il cuore si determina la mia quotidianità. Scrivere, esprimere le proprie emozioni, condividere ciò che si ha nel cuore, avere fede, pazienza e speranza per poter incoraggiare gli altri a non arrendersi mai, quando tutto è difficile, quando tutto è buio…una piccola luce, seppur piccola, fa la differenza! Non voglio essere niente e nessuno, non voglio essere neanche ascoltata! Non voglio parlare per dire la mia, non voglio esistere per essere un numero in più tra la gente! Preferisco il silenzio al rumore assordante, preferisco una lacrima alla ragione, preferisco l’ordinario allo straordinario! Ma se siamo chiamati a svolgere un compito, una responsabilità, un’opinione, uno stile di vita, allora mi schiero in prima fila, esco allo scoperto, dico la mia, indago, faccio ricerche, cerco la soluzione al problema, mi avvalgo di collaboratori che mi guidano e mi indirizzano nei luoghi giusti, non mi fermo mai al primo tentativo, o al primo fallimento, vado avanti, perseguo la meta. Quando il percorso è difficile, segnato da numerosi ostacoli, allora sono ancora più forte, reagisco all’ignoto per raggiungere l’obiettivo! Auguro alle protagoniste di questo film di trarre il meglio da ogni situazione, perché le eroine non dobbiamo vederle solo al cinema o nelle situazioni irreali, sono persone come noi, nel quotidiano con una forza in più, un obiettivo in comune unito alle loro capacità e complessità personali, integrative e sociali. Ogni giorno dobbiamo essere in azione per lasciare qualcosa di nostro a dei valori che stanno scomparendo. Allora vedremo il serial più bello e creativo perché saranno il coraggio, l’audacia e la costanza delle protagoniste a lasciare un segno.

Sei anni senza Mariangela Melato, antidiva e anticonformista

Sei anni oggi senza Mariangela Melato.
Antidiva e anticonformista, versatile, in una delle ultime interviste rilasciata a La Repubblica ha raccontato: “Mi vedevo diversa da tutte le altre: senza seno, senza sedere, magretta. E invece è andata bene ogni volta”

Poco prima di andarsene, ha rilasciato una intervista a Isabella Bossi Fedrigotti de “La Repubblica”, raccontando tanto della sua vita, dei suoi amori e della sua passione immensa per il cinema e il teatro. Nata a Milano, figlia di un vigile urbano e di una sarta, assieme alla sorella Anna e al fratello Ermanno hanno vissuto un’infanzia felice. Mariangela ha sempre coltivato la passione per il mondo dello spettacolo. Tanto è vero che, poco più che adolescente, ha lasciato casa per inseguire il suo sogno più grande: fare l’attrice. Prosegue così il suo racconto.

Visconti? Avevo 17 anni, ricordo il suo cappotto di cashmere. Andò così. Stava facendo dei provini a Roma per ‘La monaca di Monza’ e io volevo esserci a tutti i costi. Dissi alla mamma che andavo al cinema con un’amica e, invece, presi il treno per Roma. Incontrai il mitico Luchino e mi parve bellissimo, affascinatissimo, elegantissimo nel suo cappotto scuro. Avendomi a un certo punto presa sottobraccio, sentii per la prima volta cos’era il cashmere! Feci dunque il provino e poi Visconti chiese: “Te li taglieresti i capelli?” che io portavo lunghi, diritti, con la frangia sugli occhi, alla Juliette Greco, insomma. “Anche i piedi, signor conte” gli risposi pronta. E fui scritturata. Nella notte ripresi il treno per Milano e a casa la mamma me le diede di santa ragione. Poi, però, venne alla prima, e Visconti fu gentilissimo con lei. Li sentivo parlare, lui, il gran signore dall’italiano meraviglioso che, in dialetto milanese, per metterla a suo agio, diceva: “L’è bela, la tusa, l’è bela, però la gha anca du ball”, e la mia mamma, che si esprimeva quasi solo in dialetto, morta di soggezione, si sforzava di rispondergli in lingua: “Sì… effettivamente… signor conte… la ragazza ha le palle…”. Invece con Renzo (Arbore, ex fidanzato storico) la mamma andava giù piatta in milanese. S’immagini: lui, napoletano di Foggia, non capiva un’acca. Alla prima di “El noss Milan” con Strehler (del quale mi aveva pronosticato pessimista: “El te ciapa no, quel Strehler lì”), lei gli stava seduta accanto e pretese di spiegargli la trama, facendolo naturalmente in dialetto”.

Mariangela Melato, innumerevoli anni di carriera teatrale e cinematografica alle spalle, è sempre apparsa come una donna felicemente “normale”, e cioè intelligente, spiritosa, curiosa, semplice, sapiente. “Sapevo fin da piccola che questo era il mio mestiere, anche se mi vedevo diversa da tutte le altre che lo facevano: senza seno, senza sedere, magretta, gli occhi troppo distanti e il vocione. E invece è andata bene ogni volta, tutti i numerosi provini che ho fatto nella mia vita sono andati a buon fine, un po’ come quello con Luchino Visconti. E i ruoli, i lavori che sceglievo, anche quelli più ostici, miracolosamente hanno sempre avuto successo. Ricordo, per esempio, una ‘Fedra’ di Racine che decisi di interpretare, in versi, sia pure mirabilmente tradotti da Giovanni Raboni. Perfino Ronconi – si era mostrato perplesso quando gliene parlai. Per non dire di Renzo (sempre Arbore, ndr), che mi chiese: “Che storia sarebbe?” mi chiede. “Mah, una storia antica, greca, che finisce male, e io sono vestita di nero da capo a piedi e recito in rima”. “Neanche morto ti vengo a vedere!”. Poi però venne e fu un trionfo di pubblico.

Se non fosse riuscita a diventare attrice ha dichiarato più volte che avrebbe voluto fare la stilista, grazie al suo gusto e sentimento per gli abiti, per la loro capacità di seduzione “Non mi piacciono scollature e tacchi alti. Ho la presunzione di voler piacere per come sono, vestita in modo pudico, adatto alla mia mancanza di giovinezza. “Andate a cercare altrove” direi agli uomini cui piacciono le donne con il tacco dodici”.

E conclude la sua intervista con una affermazione, assolutamente “moderna”, che calza benissimo con i tempi che stiamo vivendo. “Penso di essermi comportata bene, prima di tutto con me stessa. Non ho mai avuto protettori di alcun genere e con un po’ di ironia me la sono cavata nelle situazioni, diciamo “scabrose”, che sono capitate anche a me. Ce la si può fare, insomma, pur senza andare a letto con regista o produttore. Per il futuro nostro, mi dispiace molto, invece, che il mondo sia così poco ospitale, così difficile per i ragazzi. E per mondo intendo, ovviamente, la natura, le città, la società, ma anche il lavoro, quello mio nel caso specifico”.

 

Il vocabolario dei series addicted: dagli spin-off alle OTP

«Sai, ieri ho visto il pilot della nuova comedy della ABC che in realtà sarebbe il remake di…». Pausa. «Aspetta. Ma hai capito cosa sto dicendo?».
Spesso i miei interventi hanno questo risvolto perché mi sembra di aver parlato un’altra lingua, come se avessi usato una forma di comunicazione aliena. E invece sono solo un’esperta del gergo televisivo usato dai series addicted. Chi è dipendente dalle serie TV sviluppa quindi anche un nuovo modo di parlare che può risultare curioso a chi è estraneo al meraviglioso mondo di OINTB, GOT e compagnia bella.

L’articolo prosegue su Parte del Discorso.